Un filo sottile lega la fabbrica politica a quella automobilistica.
Ve la ricordate la fiat Duna?
Quella strepitosa trovata automobilistica dell’ormai ex azienda tricolore entrata nella storia per il suo discutibile design?
Ecco, quando ero più giovane, diciamo qualche anno fa, ero sovente ammirarla percorrere le stradine del mio piccolo rione del mio piccolo paesino di montagna.
Ciò che mi chiedevo e che mi lasciava perplesso non era però il design. No. Questione di gusti, d’altronde. Anche se disegnatori e ingegneri Fiat, diciamocelo, non hanno affatto dato del loro meglio.
Il punto era ed è un altro.
Perché certe auto e, salendo a monte, certe case automobilistiche sono percepite in maniera chiara, netta e distintiva dalle persone? Perché se si pensa alla Volvo la prima parola che ci viene in mente è “sicurezza”, mentre se si pensa alla Tata Motors la prima parola è “boho”?
Certo, variabili come il design, la qualità costruttiva, l’affidabilità sono tutti elementi importanti, tangibili. Sono tuttavia le componenti hard di un processo e di una struttura che mette in gioco anche asset invisibili, che non si vedono, non si sentono ma si percepiscono in maniera assordante.
Perché il cugino pizzaiolo che fa la pizza più buona del paese, con ingredienti e materie prima di qualità, fa fatica a reggere la sfida del mercato?
Come mai alcuni partiti politici, pur strutturati e definiti, fanno fatica ad entrare nelle menti degli elettori per quel che realmente si propongono di essere?
Perché nell’attuale scenario politico italiano, il Partito Democratico viene percepito sempre più in termini “divisori” e “confusionari”?
Il consenso elettorale è anche il risultato di un efficace marketing politico.
Al netto di dinamiche politiche interne e internazionali, l’angolo di osservazione principale in questo caso è uno solo: il marketing, inteso come capacità di catturare e costruire consenso elettorale.
C’è, infatti, un dato di fatto che i partiti politici, a partire dal PD, non possono più ignorare: la politica è marketing. E qual è la funzione principale del marketing? Posizionare il marchio e, tramite questo, generare consenso.
Qui interviene Al Ries, con la legge della focalizzazione: il concetto più potente nel marketing è possedere una parola nella mente del cliente potenziale.
Mercedes è sinonimo di eleganza.
Volvo è sinonimo di sicurezza.
Trump è arrivato alla guida degli Stati Uniti d’America focalizzando la propria narrativa su di un unico tema: quello dell’immigrazione e del muro come simbolo del protezionismo.
La Lega, allo stesso modo, nel suo perenne status di campagna elettorale, ha utilizzato come punto focale della sua comunicazione un concetto chiaro: “Prima gli italiani”.
Discorso simile per il partito che molto ha utilizzato la leva comunicativa per passare, nel corso di un decennio, dai teatri e dalle piazze ai tavoli di governo: il Movimento 5 Stelle. Il topic attorno al quale M5S ha costruito assensi e consensi in Italia risulta abbastanza evidente: il reddito di cittadinanza.
Tre partiti. Tre concetti. Tre categorie di pensiero.
E il Partito Democratico?
Qual è stato il messaggio unico e distintivo? Su e per quale categoria si è posizionato? A quale target preciso si è rivolto? Attorno a quale tema si è focalizzata l’attività comunicativa?
Domande ancora senza risposte. Eppure è qui che si gioca oggi la partita. Perché non basta più essere il miglior pizzaiolo se prima non crei un brand e definisci un posizionamento chiaro e distintivo in grado di farti percepire come il più bravo, il più affidabile, a tal punto da meritare una cena a settimana.
Oppure un voto o una preferenza.
Questione di percezioni, appunto. E, come sosteneva, John Lindsay, “in politica la percezione è realtà”.
Comunicazione, politica, social network: come creare allora una campagna elettorale innovativa?
Lasciando ovviamente le scelte politiche a chi di competenza, ci limitiamo ad offrire alcuni spunti in merito a possibili strategie di comunicazione politica.
Less is more.
Bisogna lavorare con scalpello e cesello per asciugare e affinare il messaggio. Renderlo semplice in virtù della sua focalizzazione. E, si badi bene, non si tratta di semplificazione ma di selezione, ovvero di scelta del messaggio in grado di arrivare con maggiori possibilità nella mente delle persone.
Si ribalta così il paradigma: la soluzione non è nel prodotto o nella mente di chi lo genera, ma nella mente di chi lo riceve. Qual è ad oggi il problema più rilevante del partito? E, una volta definito, qual è la percezione dell’elettore in merito? E, a seguire, assumendo questa come realtà, come ristrutturarla per creare il posizionamento desiderato?
Questo il cappello strategico. Che viene prima, molto prima, degli strumenti. Lanciare campagne massive su Facebook piuttosto che su Instagram dovrebbe essere la conseguenza di una linea definita a monte.
Buttarsi a capofitto sui social network solo perché “tutti lo stanno facendo” non rende certo innovativa una campagna elettorale. L’innovazione risiede nel sapere individuare il proprio posizionamento differenziante, nel trovare una categoria, una parola e di declinarla tramite gli strumenti più opportuni.
Il rischio è che “a seguir gli altri non si arriva mai primi”.