Non si può non comunicare.
Così Watzlawick introduceva il suo discorso, quando nel lontano 1971 intraprese uno studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi nei processi comunicativi.
“Non esiste qualcosa che sia un non-comportamento o, per dirla più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Ora, se si accetta che l’intero comportamento, in una situazione di interazione, ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che, comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri; e gli altri a loro volta non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro”.
L’idea che anche il silenzio, le pause, potessero fungere da elementi comunicazionali fu, per me, qualcosa di spiazzante. Ma non tanto per ciò che intendeva significare ma, bensì, per tutto ciò che ne conseguiva. Se anche un silenzio comunicava, gioco forza bisogna ammettere la natura problematica della comunicazione. O anche conflittuale. Cosa che mi era ben chiara fin da giovane, quando capitava che ciò che dicevo veniva spesso frainteso o travisato. C’era qualcosa che non andava. Qualche piccolo impedimento che bloccava l’intero meccanismo.
Intervenivano cioè una molteplicità di variabili che avrebbero reso la comunicazione efficace se e solo se colui che attivava il messaggio avrebbe ottenuto dall’interlocutore la risposta comportamentale auspicata. Come ricordava sempre Watzlawick,
“non è importante quello che trasmetto, è importante quello che l’interlocutore riceve: infatti, se lui non ha compreso vuol dire che io non ho comunicato efficacemente. Posso conoscere quello che trasmetto in base a come l’interlocutore reagisce: infatti, ho comunicato quello che lui ha percepito. E così, non è lui che non ha reagito bene, sono io che ho inciso male sull’interlocutore: infatti, l’obiettivo fallito è il mio non è il suo”.
Tutto ciò lascia aperte alcune questioni.
La prima è relativa all’idea di efficacia.
Essendo la comunicazione un processo interattivo, tra individui tra loro “diversi”, questa deve essere efficace e quindi strategica. Deve cioè definire un obiettivo, stabilirne i mezzi, elaborare un piano d’azione al fine di tradurre in pratica l’obiettivo ideale. Ciò pone però un piccolo problema. Non sempre la pratica coincide con la teoria. C’è talvolta uno smacco. Uno scarto quantitativo e qualitativo. Ecco perché la comunicazione è materia complessa pur nascondendo in sé un potenziale enorme. Quel potenziale insito nelle cose che, come ricorda la cultura orientale, rappresenta la via maestra per rendere efficace e strategica la propria azione.
Di fatti, come ricorda anche Francois Julien in riferimento a suddetta cultura, in ogni realtà è inscritto un potenziale, cioè una certa propensione ad accadere delle cose. Diventa fondamentale allora saper cogliere questa propensione, saper cavalcare la tigre, salire sulla coda di Dio. E ciò partendo dalla constatazione che ogni situazione è differente dalla precedente e da quella che verrà.
Allora ritenere che si possano elaborare strategie anche comunicative valide sempre e comunque è impresa fallimentare. Più opportuno invece adattarle in base ai contesti e alle situazioni, nonché agli interlocutori. E ciò vale in qualsiasi campo d’applicazione. Dal mercato alla politica. Dalle imprese agli organismi politici. Dal pubblico al privato. Soprattutto se si considera che allo stato attuale ci si trova di fronte ad un società moderna sempre più densa, sempre più stratificata, caratterizzata dalla presenza di una molteplicità di relazioni, flussi informativi e attori sociali.
Diventa così necessario, per acquisire visibilità, saper comprendere e adoperare le logiche della comunicazione. Si pensi, ad esempio, alle imprese moderne che operano in mercati globalizzati sempre più competitivi, le quali necessitano, per sopravvivere, della capacità di saper cogliere l’ineluttabilità del cambiamento, saper modificare le proprie strutture in base alle nuove istanze socio economiche e saper far percepire la natura del cambiamento. In questi passaggi si situa l’essenza della comunicazione: entrare in contatto con i pubblici, ricostruire la propria identità e la propria vision, saperla trasmettere, e riascoltare i pubblici per ripartire con il processo circolare nel continuo divenire che caratterizza da sempre l’azione e l’esistenza stessa dell’impresa.
La Comunicazione,quindi, sempre più rappresenta un asset fondamentale, ma anche quello più difficilmente replicabile, per stabilire e mantenere relazioni positive con quella molteplicità di pubblici che caratterizzano tanto il mercato quanto la sfera pubblica moderna. Eccoci arrivati al dunque.
La comunicazione può e deve inserirsi in questo spazio per colmare le distanze, per farsi vettore di fiducia e collante sociale, per ricostruire appartenenze, per ridurre le distanze. Per diventare cioè strumento necessario di sviluppo democratico.
Il problema è che proprio qui spesso si insinuano pericolose scorciatoie, figlie di una comunicazione volutamente distorta e deviante. Terreno fertile per stereotipi e pregiudizi. Si pensi ai prodotti mediatici, di cui ciascuno, nolente o volente, se ne ciba quotidianamente e che hanno un certo influsso sulle nostre modalità di rappresentazione sociale della realtà.
Ma nella convinzione, come sostiene Melucci, che comprendere è più difficile che riportare, perché obbliga a coltivare l’arte del disincanto, che non deve significare cinismo, appartenenza, scelta di campo; bensì capacità di uscire fuori da sé, spogliarsi delle proprie determinazioni politiche e culturali, decentrare lo sguardo per comprendere l’altro.